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domingo, 7 de diciembre de 2014

VATTIMO, Gianni – De la realidad. Fines de la filosofía (reseña de Daniel Mariano Leiro)



Gianni Vattimo, De la realidad. Fines de la filosofía. Barcelona: Herder, 2013.

Reseña de Daniel Mariano Leiro, Universidad de Buenos Aires

Para acceder al texto, que se halla en formato pdf con los permisos del caso, hacer click sobre el título de la obra o el nombre del autor.

Hasta el momento, la obra más reciente de Gianni Vattimo. Contiene las Lecciones de Lovaina (1998) y las Gifford Lectures (2010), además de otros textos anteriores relativos al problema del realismo metafísico. El libro contiene como texto final la famosa Lezione di congedo de 2008 con el título "Del diálogo al conflicto".

El video de la parte superior es un homenaje a Su Majestad Fabiola de Bélgica, fallecida hace dos días.

Un servicio más de La Coalición.

domingo, 31 de octubre de 2010

Dal dialogo al conflitto (Parte III)

Dal dialogo al conflitto
Del diálogo al conflicto (Parte III): El caso Heidegger
Lezione di Congedo.
Lección magistral de despedida de la enseñanza

(14 de octubre de 2008)

Gianni Vattimo

Universidad de Turín


Advertencia:
Texto original en italiano, que no incluye las notas. Reproducido tal cual fue leído por Gianni Vattimo en 2008, en que se retiró de la enseñanza en la Universidad de Turín. Este texto ha sido impreso con modificaciones y la introducción de las notas respectivas en Italia en 2009. Va a ser pronto impreso en castellano. Lezione di congedo gira en torno a la concepción política de Gianni Vattimo y a las nuevas posibilidades de la hermenéutica según el autor. Vamos a reproducirlo en La Coalición dividido en tres partes. Es una obra fundamental para corregir la interpretación liberal de izquierda del filósofo.

"Ho richiamato il saggio sull'opera d'arte perché è lì che va cercato il nesso tra accadere della verità e conflitto. Ripeto in breve i passi impliciti in quanto detto fin qui (penserò anch'io gross, con la connessa inevitabilità dello irren?). La verità, se non è rispecchiamento di un ordine eternamente dato di essenze e strutture, è accadimento, e accadimento dialogico (Seitdem wir ein Gespraech sind). Verità si dà quando ci mettiamo d'accordo. Ma il dialogo sarà davvero sempre così pacifico? La fiducia platonica, che si ritrova in Gadamer, nella sua creatività, suppone sempre che ci sia, da qualche parte, ilvero. E che qualcuno ne sappia un po' più degli altri: lo schiavo che nel dialogo socratico arriva a scoprire la verità geometrica è guidato da qualcuno che lo interroga opportunamente. Come che sia del dialogo socratico-platonico, è certo che la retorica odierna del dialogo ha molti caratteri per essere sentita come una maschera del dominio – ed è così che la viviamo di fatto nella nostra insofferenza crescente verso di essa. Ora, nel saggio sull'opera d'arte a cui mi sto riferendo, Heidegger come si sa definisce l'opera d'arte come “messa in opera della verità”. E la lettura di questa definizione l'interpreta giustamente come l'affermazione del carattere “inaugurale” dell'opera. Ciò a cui Heidegger sembra pensare è che, siccome la verità di una proposizione qualunque si prova solo all'interno di un paradigma storico, il quale non è semplicemente l'articolarsi di una struttura eterna (natura dell'uomo, primi principi, ecc.) ma accade, nasce, ha un'origine (analogamente al paradigma di Kuhn), la sede di questo accadere va cercata nell'opera d'arte. Inaugurale in questo senso, possiamo pensare, è la Divina Commedia, Shakespeare, Omero, e anzitutto la Bibbia. Nello stesso saggio, mentre sviluppa a lungo l'idea dell'opera in quanto luogo di accadere della verità come apertura di un orizzonte storico,nascita di un linguaggo ecc., Heidegger indica anche altri modi di accadere della verità oltre all'opera d'arte – CITA HW – che però non discute più ampiamente, e che restano definitivamente fuori dall'orizzonte dei suoi scritti successivi, sempre orientati a cercare l'evento della verità nella poesia o nella saggezza originaria delle sentenze dei presocratici.

Quel che costituisce la base della forza inaugurale dell'opera d'arte,e questo mi sembra oggi più importante di quanto non mi apparisse in passato, è il fatto che essa mantiene aperto il conflitto tra mondo e terra. Due termini che, senza ripetere qui analisi svolte altrove, vanno intesi l'uno, il mondo, come l'orizzonte articolato, il paradigma, che l'opera inaugura e dentro cui ci fa “abitare”; l'altro, la terra,come quella riserva di sempre ulteriori significati che, come dice il termine stesso, sono legati alla vita – della natura e della persona – e che costituiscono sempre un alone oscuro da cui proviene la spinta a progettare, a cambiare, a divenire altro. L'esistenza, pensa Heidegger,è progetto; e l'essere stesso in quanto si dà solo attraverso l'uomo che è il suo “pastore” o anche luogotenente, è evento in quanto novità, indeducibilità, accadimento puro e semplice, non necessario ma sempre inugurale. La storia dell'essere, del resto, che in Heidegger è il concatenarsi, problematico, delle aperture, dei paradigmi, è possibile perché c'è “la terra”, e cioè il succedersi delle generazioni: è a questo ritmo – si ricordi il saggio sul detto di Anassimandro – che i paradigmi, le aperture, gli eventi dell'essere lasciano il posto l'uno all'altro.



Ma la terrestrità non si lascia chiudere dentro la stabilità di un dialogo felice, che istituirebbe la verità come nascita armoniosa di una nuova apertura. La vicenda delle avanguardie del secolo XX, che Heidegger certamente visse, mostra quanta forza di “spaesamento” (Hd.,e non solo Benjamin, parlano di shock come effetto dell''opera) sia contenuta nella nascita di un'altra apertura, sia pure in quell'ambito “innocente” che è l'arte. L'accadere della verità “disturba”. La transizione da uno a un altro paradigma – si ricorderà che l'esempio più usato da Kuhn è l'abbandono dell'ipotesi tolemaica a favore di quella copernicana – non accade mediante un “dialogo”, ha piuttosto il carattere di un cambio “catastrofico” che non si lascia razionalizzare se non après coup. Per quanto ci si sforzi di adottare una concezione razionale della storia, non si può non vedere che le grandi trasformazioni, che certo non accadono in un solo momento, non sono mai effetto di decisioni razionali, e tanto meno “democratiche”. Per fondare la democrazia in Iraq, ci ha insegnato Bush con tutti i suoi corifei,occorre un atto di forza. E del resto i rivoluzionari francesi – inizio ufficiale, nei manuali, dell'Età Moderna - quando decapitano il re non lo decidono con un referendum. A cominciare dalle costituzioni, anche e soprattutto quelle democratiche, si tratta sempre di “eventi” non “logici”, ma invece discontinui rispetto a ciò che precede, dunque anche non dia-logici. L'argomentazione razionale è certamente preferibile, nessuno dubita che su questo abbia ragione Habermas o anche Rawls. Ma l'istituzione di un orizzonte di argomentatività,almeno per ora (e dobbiamo sottolinearlo, contro ogni irrazionalismo metafisico o di principio), implica una lotta, un conflitto, forse quello che, secondo Marx, doveve farci uscire dalla preistoria.

Il “per ora” non è qui un'espressioe retorica. La scelta infelice, il tragico errore di Heidegger nel 1933 vale per noi come esempio perché ci sembra di riconoscere nella situazione attuale tratti analoghi a quella con cui lui ebbe a che fare. Come allora, siamo in una condizione “di urgenza” con la minaccia incombente di perdita della libertà. Anche se, fortunatamente, possiamo rinunciare a cercare troppe analogie; le differenze concrete sono tante, il riferimento a quell'epoca vale per noi solo come richiamo al fatto che la filosofia, se non vuole essere metafisica sempre solo apologetica delle cose come stanno, deve guardare alla condizione universale del mondo e lasciarsene interpellare. Già pensarla così, però, la mette nella necessità di impegnarsi. Non si può cercare di uscire dalla metafisica – oggettiva, apologetica, “realistica” - senza venir coinvolti nel conflitto da cui soltanto puo' scaturire la verità-evento. La libertà – la progettualità umana in cui soltanto si annuncia l'essere come tale - è sempre minacciata dalla metafisica (cioè dalla violenza del dominio). Ai tempi della svolta di Heidegger, era minacciata dal chiudersi della morsa di imperialismo capitalistico, comunismo staliniano e nazismo tedesco. Oggi la minaccia sono le forze neutralizzanti della globalizzazione in cui il dominio si nasconde sotto la maschera della razionalità economica e della scienza-tecnica vista come sola speranza di “progresso” e di “pace”. La nostra situazione è, per certi versi,più insidiosa, anche se infinitamete più comoda, di quella degli anni Trenta.

Il tacitamento di ogni conflittualità – che allora certo era invece assai più esplicita – realizza quella condizione che Heidegger stigmatizzava nella citazione platonica che fa da esergo a Essere e tempo: non solo non abbiamo una risposta alla domanda sul senso dell'essere, ma ci siamo dimenticati, ci stiamo dimenticando, anche della stessa domanda. Per questo, cercare di ricordare l'essere non vuol dire altro,oggi per noi, che opporsi alla neutralizzazione, prendere partito. Con chi e per cosa non è poi tanto difficile da stabilire,senza lasciarsi troppo impressionare dai tanti che oggi , giustamente anche se sempre con ragoni di tracotanza metafisica (noi siamo i veri difensori dell'umano ec .), credono di dover buttare a mare l'ontologia di Heidegger per il suo errore del 1933. Sforzarsi di ricordare l'essere come progettualità e libertà significa ovviamente scegliere di stare con quelli che più progettano perché meno hanno: il vecchio proletariato marxiano, non titolare metafisico della verità perché libero di vedere il mondo fuori dalle ideologie; ma portatore dell'essenza generica perché più di ogni altro individuo, gruppo, classe, è definito dal progetto, cioè autenticamente ex-sistente.

Come si vede, questo discorso è tutt'altro che un congedo –anche se forse qualcuno, viste le conclusioni poco “innocenti”, sarà tentato di salutarlo, finalmente, come tale. C'è ancora un sacco di lavoro, non solo teorico, da fare. Dunque, piuttosto un arrivederci, forse in altre sedi, ma con la stessa importuna passione progettuale".

Pronto enlace con el texto completo

sábado, 23 de octubre de 2010

Dal dialogo al conflitto



Dal dialogo al conflitto
Del diálogo al conflicto (Parte I)
Lezione di Congedo.
Lección magistral de despedida de la enseñanza

(14 de octubre de 2008)

Gianni Vattimo

Universidad de Turín

Advertencia:
Texto original en italiano, que no incluye las notas. Reproducido tal cual fue leído por Gianni Vattimo en 2008, en que se retiró de la enseñanza en la Universidad de Turín. Este texto ha sido impreso con modificaciones y la introducción de las notas respectivas en Italia en 2009. Va a ser pronto impreso en castellano. Lezione di congedo gira en torno a la concepción política de Gianni Vattimo y a las nuevas posibilidades de la hermenéutica según el autor. Vamos a reproducirlo en La Coalición dividido en tres partes. Es una obra fundamental para corregir la interpretación liberal de izquierda del filósofo.

“Congedo fino a un certo punto. Io progetto di stare ancora in contatto con gli studenti che lo vorranno attraverso seminari liberi e lavori di ricerca. Dunque forse non era necessario creare una specifica occasione come questa, e io ho avuto a lungo questo dubbio. Da ultimo, mi è sembrato che, come si dice, mi sarei fato notare troppo di più con il non esserci che con l’esserci. Finiva per essere un atto di piccola arroganza, anche di fronte alla solennità con cui miei maggiori, penso soprattutto a Luigi Pareyson, maestro non solo di filosofia per me, che nella sua lezione di congedo aveva come inaugurato una ultima fase del suo pensiero niente affatto ripetitiva o epigonica. Perciò, prego gli amici e colleghi che mi fanno l’onore di essere qui, di considerare questa lezione come la semplice assoluzione di un dovere accademico che compio con un certo imbarazzo – visto che lo compio per la prima volta.



Una lezione che non sia una conferenza isolata viene alla fine di un corso. Per questo le cose che dirò sono la continuazione e la provvisoria conclusione del lavoro fatto negli ultimi anni e mesi. Anche a questo allude il titolo, da ..a. In qualche senso qui si racconta una storia, si riassume un itinerario. Che non è un processo logico, non è uno sviluppo di concetti, ma per l’appunto la narrazione di una fetta di biografia. Chi ricorda quanto Pareyson abbia insistito, proprio nei suoi ultimi anni, sulla verità del mito come racconto, può riconoscere anche qui una traccia del suo insegnamento, sia pure tradotto in termini “secolari”, trasferito dalla storia ideale eterna al cui livello egli pensava a vicende forse umane troppo umane.

Perché dunque dal dialogo al conflitto? Non è forse l’ermeneutica – quell’orientamento filosofico a cui sulle tracce di Pareyson, di Gadamer, e prima di Heidegger e di Nietzsche ho sempre cercato di ispirarmi – per l’appunto una filosofia del dialogo? Anni fa , anche in base all’esperienza di dibattiti americani dove l’ermeneutica era diventata semplicemente il nome di tutta la filosofia “continentale” (da Habermas a Foucault a Derrida e Deleuze) sostituendo esistenzialismo e fenomenologia, avevo proposto di parlare di ermeneutica come nuova koiné, nuovo idioma comune di una larga parte della filosofia contemporanea. Questa diffusione, per dir così, dell’ermeneutica l’ha anche fatalmente “diluita”, come ho osservato in libri e articoli degli anni Novanta. Alla diluizione – che mi ricordava un poco l’interpretazione “leggera” dell’eterno ritorno di Nietzsche da parte degli animali di Zarathustra – “tutto va, tutto ritorna, eterna gira la ruota dell’essere” , non c’è nulla di cui dobbiamo preoccuparci – pensai allora di opporre una più dura accentuazione dell’inevitabile esito nichilistico dell’ermeneutica presa sul serio. Che ogni esperienza di verità sia interpretazione non è a propria volta una tesi descrittivo-metafisica, è una interpretazione che non si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno – anzi non può affatto pensare che le cose, l’essere, “stiano” in qualche modo; interpretazione e cose, ed essere, sono parti dello stesso accadere storico; anche la stabilità dei concetti matematici o delle verità scientifiche è accadimento; si verificano o falsificano proposizioni sempre soltanto all’interno di paradigmi che non sono a loro volta eterni, ma epocalmente qualificati. Parlavo di esito nichilistico dell’ermeneutica, riprendendo il termine da Nietzsche ma con una inflessione heideggeriana; come si sa, per Heidegger l’essere è evento, apertura proprio di quegli orizzonti storici che Kuhn chiama paradigmi.

Alla nozione heideggeriana di evento io aggiungevo – credo sempre in fedeltà al suo insegnamento - una più esplicita filosofia della storia dell’essere di origine nietzschiana: se guardiamo alla storia dell’essere come si è data e si dà a noi occidentali (cittadini dell’Abendland, la terra del tramonto) la lettura più ragionevole che possiamo darne è quella proposta da Nietzsche con la sua idea di nichilismo: la storia nel corso della quale, come riassume Heidegger, alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla. Appunto dell’essere come tale: l’on è on di Aristotele, l’essere come struttura stabile che sta al di là di ogni contingenza e garantisce la verità immutabile di ogni vero ha il “destino” di camminare indefinitamente verso il non-essere -più l’essere come tale. Seguendo Nietzsche, vedevo questo processo come il filo coduttore del divenire della cultura occidentale, dalla verità come visione delle idee di Platone alla fondazione “soggettiva” del vero in Cartesio e Kant fino all’identificazione positivistica della verità con il risultato dell’esperimento costruito dallo scienziato e poi alla stessa “universalizzazione” dell’ermeneutica, ben oltre le scienze umane, in teorie come quella di Thomas Kuhn.

Uno schema troppo semplicistico, come osservano gli storici della filosofia –da sempre amici-nemici della teoretica. Ma che Nietzsche e Heidegger condividono con Dilthey , persino con Husserl e, più remotamente, con Hegel; senza del quale non si può fare una teoretica che non sia metafisica – giacché se ci si rifiuta alla schematizzazione troppo semplicistica della storia da cui proveniamo e in cui come interpreti cerchiamo la nostra legittimazione, non possiamo che pensare di dover rispecchiare un ordine oggettivo che dovrà fatalmente essere pensato come sottratto alle vicende storiche. Ricordo qui che, nonostante tutte le sue pretese di costituire la via di uscita dal nichilismo nietzschiano, dal quale doveva distinguersi proprio a causa della radicale vicinanza, Heidegger è pur sempre l’autore di frasi come “das Sein als Grund fahren lassen” (in ZSD) e “Sein,nicht Seiendes, gibt es nur” (SuZ par. 44). E che d’altra parte, nel mio lavoro degli ultimi anni, lo schema “semplicistico” della storia occidentale come nichilismo si è ispirato anche alla nozione di secolarizzazione vista come progressiva realizzazione di quella kenosis del divino che è l’essenza del Cristianesimo.

Ecco dunque il senso dell’esito nichilistico dell’ermeneutica. Che non significa non avere più criteri di verità, ma solo che questi criteri sono storici e non metafisici; certo non legati all’ideale della “dimostrazione”, ma piuttosto orientati alla persuasione – la verità è affare di retorica, di accettazione condivisa; come è del resto anche la proposizione scientifica, che vale in quanto è verificata da altri, dalla cosiddetta comunità scientifica, e niente di più”.

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