sábado, 23 de octubre de 2010

Dal dialogo al conflitto



Dal dialogo al conflitto
Del diálogo al conflicto (Parte I)
Lezione di Congedo.
Lección magistral de despedida de la enseñanza

(14 de octubre de 2008)

Gianni Vattimo

Universidad de Turín

Advertencia:
Texto original en italiano, que no incluye las notas. Reproducido tal cual fue leído por Gianni Vattimo en 2008, en que se retiró de la enseñanza en la Universidad de Turín. Este texto ha sido impreso con modificaciones y la introducción de las notas respectivas en Italia en 2009. Va a ser pronto impreso en castellano. Lezione di congedo gira en torno a la concepción política de Gianni Vattimo y a las nuevas posibilidades de la hermenéutica según el autor. Vamos a reproducirlo en La Coalición dividido en tres partes. Es una obra fundamental para corregir la interpretación liberal de izquierda del filósofo.

“Congedo fino a un certo punto. Io progetto di stare ancora in contatto con gli studenti che lo vorranno attraverso seminari liberi e lavori di ricerca. Dunque forse non era necessario creare una specifica occasione come questa, e io ho avuto a lungo questo dubbio. Da ultimo, mi è sembrato che, come si dice, mi sarei fato notare troppo di più con il non esserci che con l’esserci. Finiva per essere un atto di piccola arroganza, anche di fronte alla solennità con cui miei maggiori, penso soprattutto a Luigi Pareyson, maestro non solo di filosofia per me, che nella sua lezione di congedo aveva come inaugurato una ultima fase del suo pensiero niente affatto ripetitiva o epigonica. Perciò, prego gli amici e colleghi che mi fanno l’onore di essere qui, di considerare questa lezione come la semplice assoluzione di un dovere accademico che compio con un certo imbarazzo – visto che lo compio per la prima volta.



Una lezione che non sia una conferenza isolata viene alla fine di un corso. Per questo le cose che dirò sono la continuazione e la provvisoria conclusione del lavoro fatto negli ultimi anni e mesi. Anche a questo allude il titolo, da ..a. In qualche senso qui si racconta una storia, si riassume un itinerario. Che non è un processo logico, non è uno sviluppo di concetti, ma per l’appunto la narrazione di una fetta di biografia. Chi ricorda quanto Pareyson abbia insistito, proprio nei suoi ultimi anni, sulla verità del mito come racconto, può riconoscere anche qui una traccia del suo insegnamento, sia pure tradotto in termini “secolari”, trasferito dalla storia ideale eterna al cui livello egli pensava a vicende forse umane troppo umane.

Perché dunque dal dialogo al conflitto? Non è forse l’ermeneutica – quell’orientamento filosofico a cui sulle tracce di Pareyson, di Gadamer, e prima di Heidegger e di Nietzsche ho sempre cercato di ispirarmi – per l’appunto una filosofia del dialogo? Anni fa , anche in base all’esperienza di dibattiti americani dove l’ermeneutica era diventata semplicemente il nome di tutta la filosofia “continentale” (da Habermas a Foucault a Derrida e Deleuze) sostituendo esistenzialismo e fenomenologia, avevo proposto di parlare di ermeneutica come nuova koiné, nuovo idioma comune di una larga parte della filosofia contemporanea. Questa diffusione, per dir così, dell’ermeneutica l’ha anche fatalmente “diluita”, come ho osservato in libri e articoli degli anni Novanta. Alla diluizione – che mi ricordava un poco l’interpretazione “leggera” dell’eterno ritorno di Nietzsche da parte degli animali di Zarathustra – “tutto va, tutto ritorna, eterna gira la ruota dell’essere” , non c’è nulla di cui dobbiamo preoccuparci – pensai allora di opporre una più dura accentuazione dell’inevitabile esito nichilistico dell’ermeneutica presa sul serio. Che ogni esperienza di verità sia interpretazione non è a propria volta una tesi descrittivo-metafisica, è una interpretazione che non si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno – anzi non può affatto pensare che le cose, l’essere, “stiano” in qualche modo; interpretazione e cose, ed essere, sono parti dello stesso accadere storico; anche la stabilità dei concetti matematici o delle verità scientifiche è accadimento; si verificano o falsificano proposizioni sempre soltanto all’interno di paradigmi che non sono a loro volta eterni, ma epocalmente qualificati. Parlavo di esito nichilistico dell’ermeneutica, riprendendo il termine da Nietzsche ma con una inflessione heideggeriana; come si sa, per Heidegger l’essere è evento, apertura proprio di quegli orizzonti storici che Kuhn chiama paradigmi.

Alla nozione heideggeriana di evento io aggiungevo – credo sempre in fedeltà al suo insegnamento - una più esplicita filosofia della storia dell’essere di origine nietzschiana: se guardiamo alla storia dell’essere come si è data e si dà a noi occidentali (cittadini dell’Abendland, la terra del tramonto) la lettura più ragionevole che possiamo darne è quella proposta da Nietzsche con la sua idea di nichilismo: la storia nel corso della quale, come riassume Heidegger, alla fine dell’essere come tale non ne è più nulla. Appunto dell’essere come tale: l’on è on di Aristotele, l’essere come struttura stabile che sta al di là di ogni contingenza e garantisce la verità immutabile di ogni vero ha il “destino” di camminare indefinitamente verso il non-essere -più l’essere come tale. Seguendo Nietzsche, vedevo questo processo come il filo coduttore del divenire della cultura occidentale, dalla verità come visione delle idee di Platone alla fondazione “soggettiva” del vero in Cartesio e Kant fino all’identificazione positivistica della verità con il risultato dell’esperimento costruito dallo scienziato e poi alla stessa “universalizzazione” dell’ermeneutica, ben oltre le scienze umane, in teorie come quella di Thomas Kuhn.

Uno schema troppo semplicistico, come osservano gli storici della filosofia –da sempre amici-nemici della teoretica. Ma che Nietzsche e Heidegger condividono con Dilthey , persino con Husserl e, più remotamente, con Hegel; senza del quale non si può fare una teoretica che non sia metafisica – giacché se ci si rifiuta alla schematizzazione troppo semplicistica della storia da cui proveniamo e in cui come interpreti cerchiamo la nostra legittimazione, non possiamo che pensare di dover rispecchiare un ordine oggettivo che dovrà fatalmente essere pensato come sottratto alle vicende storiche. Ricordo qui che, nonostante tutte le sue pretese di costituire la via di uscita dal nichilismo nietzschiano, dal quale doveva distinguersi proprio a causa della radicale vicinanza, Heidegger è pur sempre l’autore di frasi come “das Sein als Grund fahren lassen” (in ZSD) e “Sein,nicht Seiendes, gibt es nur” (SuZ par. 44). E che d’altra parte, nel mio lavoro degli ultimi anni, lo schema “semplicistico” della storia occidentale come nichilismo si è ispirato anche alla nozione di secolarizzazione vista come progressiva realizzazione di quella kenosis del divino che è l’essenza del Cristianesimo.

Ecco dunque il senso dell’esito nichilistico dell’ermeneutica. Che non significa non avere più criteri di verità, ma solo che questi criteri sono storici e non metafisici; certo non legati all’ideale della “dimostrazione”, ma piuttosto orientati alla persuasione – la verità è affare di retorica, di accettazione condivisa; come è del resto anche la proposizione scientifica, che vale in quanto è verificata da altri, dalla cosiddetta comunità scientifica, e niente di più”.

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