lunes, 25 de octubre de 2010

Dal dialogo al conflitto (Parte II)

Dal dialogo al conflitto
Del diálogo al conflicto (Parte II)
Lezione di Congedo.
Lección magistral de despedida de la enseñanza

(14 de octubre de 2008)

Gianni Vattimo

Universidad de Turín

Advertencia:
Texto original en italiano, que no incluye las notas. Reproducido tal cual fue leído por Gianni Vattimo en 2008, en que se retiró de la enseñanza en la Universidad de Turín. Este texto ha sido impreso con modificaciones y la introducción de las notas respectivas en Italia en 2009. Va a ser pronto impreso en castellano. Lezione di congedo gira en torno a la concepción política de Gianni Vattimo y a las nuevas posibilidades de la hermenéutica según el autor. Vamos a reproducirlo en La Coalición dividido en tres partes. Es una obra fundamental para corregir la interpretación liberal de izquierda del filósofo.


"Ma, di nuovo: perché dal dialogo al conflitto? E’fin troppo evidente che se si dice che la verità è affare di persuasione, di condivisione, il dialogo ha una funzione centrale. Heidegger ha spesso commentato i versi di Hoelderlin: “molti dei ha nominato l’uomo... da quando siamo un Gespraech”. Una “logica” heideggeriana non può che pensare la verità come risultato del dialogo e niente di più – non insomma: ci mettiamo d’accordo perché abbiamo scoperto (là fuori) la verità, ma: diciamo di aver trovato la verità quando ci mettiamo d’accordo (qui ci sarebbe da ricordare Hegel in Kojève). Dunque alla base della verità come evento (non rispecchiamento ecc.) c’è la pluralità degli interpreti e il loro accordo o disaccordo. Qui incontro di nuovo uno degli aspetti dell’insegnamento pareysoniano, l’idea che l’interpretazione può fallire. Questa idea ha sempre alquanto limitato la mia condivisione della teoria della “fusione di orizzonti” di Gadamer e in genere del dialogo ermeneutico. Come se in quella teoria ci fosse troppo ottimismo, troppo irenismo. Un tratto di questo tipo si avverte persino nella teoria dell’agire comunicativo di Habermas. Anche presso di lui il dialogo argomentativo ha sempre l’aria di essere una faccenda tra soggetti trascendentali, tra ricercatori di laboratorio. I limiti che si incontrano sono sempre i loro limiti soggettivi, la loro eventuale opacità, anche quando sia prodotta da condizioni sociali sfavorevoli (sfruttamento, esclusione) che certo Habermas non intende accettare. Oppure si tratta semplicemente di non confondere i tipi di argomentazione, come nel caso dei giochi linguistici di Wittgenstein: coi santi in chiesa ecc.

Da quando ha inclinato verso una ripresa sempre più esplicita del kantismo in luogo del suo marxismo critico di origine, Habermas si sofferma sempre meno sui modi da cui dipende la realizzazione delle condizioni di un dialogo. Una riprova di ciò, mi sembra, è il fatto che nelle sue posizioni politiche si accentua sempre più una sorta di “istituzionalismo” , una fiducia poco giustificata nelle organizzazioni internazionali come l’ONU, della cui inefficacia nel contrastare la volontà dei paesi (del paese) forti pochi di noi dubitano, ormai.

Posso confessare senza difficoltà che sono diventato sensibile a questo problema – che riassumo nel titolo dal dialogo al conflitto - per ragioni che non hanno anzitutto a che fare con questioni interne alla teoria, ma che sono invece fin troppo evidentemente legate a quella che con espressione dello Hegel dell’estetica chiamerei,alquanto pomposamente,la “condizione generale del mondo”. Della quale prendiamo coscienza a partire dal senso di fastidio che ci suscita sempre più nettamente ogni richiamo al dialogo. Non solo nella recente politica italiana,dove i contendenti litigano rimproverandosi reciprocamente di non voler dialogare, senza mai peraltro nominare la “cosa stessa”, con effetti che sarebbero comici se non ne andasse del destino del Paese. In verità, se riflettiamo sulle ragioni dell’insofferenza per la retorica del dialogo ci rendiamo conto che stiamo solo esprimendo una rivolta ben più ampia e, se permettete, più filosoficamente rilevante, e cioè la rivolta contro la “neutralizzazione” ideologica che domina ormai ovunque nella cultura del primo mondo, l’Occidente industrializzato. Si tratta di quello che spesso è stato chiamato il pensiero unico, il quale si identifica in ultima analisi con ciò che i politici chiamano – quando lo nominano – il Washington consensus, al di fuori del quale non c’è che il terrorismo con tutti i suoi derivati. Detta così, si capisce, sembra una caricatura. Ma ha il vantaggio di mostrare senza equivoci un tratto sempre più marcato della nostra esistenza contemporanea. Che questo sia un affare filosoficamente rilevante lo può negare solo chi pensi la filosofia come coltivazione di linguaggi e problemi totalmente altri rispetto al vivere quotidiano. Naturalmente, anche chi vede le cose in questo modo è convinto della rilevanza “assoluta” di ciò che fa, proprio in nome di quella concezione metafisica dell’essere che lo immagina come la struttura base del reale, nella quale conviene “affisarsi” per raggiungere la salvezza. Ma senza prendere in esame le buone ragioni di chi –come Heidegger, Nietzsche, e molta filosofia contemporanea– pensa che proprio DALLA metafisica occorra salvarsi perché è prodotto e sostegno dei rapporti di dominio (ancora Pareyson: la sua lezione di congedo si intitolava Filosofia della libertà). Il pensiero unico nel quale siamo immersi ha il merito di averci fatto capire - in molti sensi sulla nostra pelle – che l’oggettivismo metafisico, oggi declinato soprattutto come potere di scienza e tecnologia, non è altro che la forma più aggiornata – e più sfuggente – del dominio di classi, gruppi, individui. Neutralizzazione e potere degli esperti di ogni tipo sono la stessa cosa. E' l’esperienza che, anche nel piccolo orizzonte della società italiana, facciamo quando vediamo la scomparsa delle differenze tra destra e sinistra.


Una scomparsa che del resto è generale, almeno nel mondo occidentale della razionalità capitalistica, per quanto quest’ultima sia sempre più visibilmente irrazionale e manifesti senza alcun pudore la sua essenza puramente predatoria
Possiamo, noi fanatici heideggeriani, riscattare finalmente l’antimodernismo di Heidegger, la sua diffidenza per il dominio tecnoscientifico universale? Tutto, o quasi,quello che gli è stato rimproverato da sempre come segno di oscurantismo da Foresta Nera, di nostalgia per la vita patriarcale delle campagne tedesche, persino, diciamolo, la sua infelice scelta per il nazismo nel 1933, prende un colore diverso alla luce di quanto sta succedendo oggi a causa della globalizzazione e della omologazione imperialistica del pianeta. Lo Heidegger che si schiera con Hitler nel 1933 fa qualcosa che certo noi non potremmo mai condividere. Ma fanno lo stesso pensatori come Lukacs e Bloch che scelgono il comunismo di Stalin. In tutti e due i casi, quale che sia la nostra preferenza per l’una delle due posizioni, si tratta dell’assunzione decisa di un impegno storico che sia l’uno sia gli altri vedono come filosoficamente determinante, ma non – almeno Heidegger – come rispondente a un valore metafisicamente universale. Voglio dire che nel caso di Heidegger, si tratta di una scelta consapevolmente “di parte”, assunta come corrispondente a un destino specifico, quello del popolo tedesco, destino che è bensì visto come appello dell'essere, ma per l'appunto di un essere che si annucia solo come specifico invio storico, nel quadro di una situazione (la potenza prevalente dell'America capitalista e della Russia staliniana) anch'essa non leggibile – nella sua prspettiva - in termini di valori ed essenze universali. Per molti aspetti, era “di parte”, non in nome di valori pretesi universali, la scelta di Lukacs o di Bloch, che però confidavano in una razionalità globale della storia nella quale il proletariato rivoluzionario, con il quale ritenevano di schierarsi scegliendo il comunismo sovietico, era l'agente del riscatto di tutta l'umanità. So che questo punto – la scelta di Heidegger negli anni Trenta, che vedo come molto simile , sia pure diametralmente opposta nei contenuti, a quella di personaggi come Lukacs e Bloch - solleva questioni delicate, e lo evoco qui non certo con intenzioni provocatorie. Che forse però sono nella cosa stessa: della neutralizzazione oggettivistica, metafisica, tecno-scientifica che caratterizza il pensiero unico fa parte anche la buona coscienza con cui l'Occidente industriale si sente portatore dei “veri” diritti umani, dell'ordine politico giusto (al punto da volerlo imporre, o da voler far credere di imporlo, anche con la guerra ai popoli altri), dell'autentica civiltà conforme alla natura dell'uomo.




Tutto questo Heidegger ci insegna a respingere come sopravvivenza della metafisica, e cioè del dominio, anche con il suo tragico errore del 1933. Un errore che ci appare tale non perché noi ci sentiamo rappresentanti di quella vera umanità di cui l'Occidente sarebbe il portatore. Solo, corrispondiamo,o intendiamo corrispondere, a un'altra chiamata storica in molti sensi analoga a quella che egli ritenne di ascoltare non solo con l'adesione al nazismo nel 1933, ma soprattutto quando, a partire dal saggio su L'origine dell'opera d'arte (1936) cominciò a elaborare un concetto di evento dell'essere che, dovendolo pensare come libertà, novità, progetto – e non come semplice sviluppo di una essenza metafisica data una volta per tutte – si trovò anche a confrontarsi con la sua natura conflittuale. Quel che accade nel pensieor di Heidegger dopola “svolta” degli anni Trenta e che continua a provocarci, non è tanto il “mistero di iniquità” della sua adesione a Hitler,quanto la sua presa d'atto che non si può parlare di autenticità, Eigentlichkeit (la grande parola di Sein und Zeit) se non entro l'Ereignis; tradotto: non puoi diventare autentico con una semplice decisione morale individuale, questa è una faccenda che riguarda l'essere stesso, come dice poi nella Lettera sull'umanismo contro Sartre. Ma devi semplicemente stare immobile a aspettare? Anche a costo di sbagliare, tradendo certi aspetti fondamentali della sua stessa filosofia, Heidegger pensa di doversi schierare: per e contro qualcosa, senza alcun pretesa metafisica di neutralità sovrana, in nome di un accesso filosofico ai primi principi e valori univesali. Wer gross denkt muss gross irren, come egli ripeterà spesso negli anni successivi. Chi pensa in grande non può che errare in grande.

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